Darkthrone – “The Cult Is Alive” (2006)

Artist: Darkthrone
Title: The Cult Is Alive
Label: Peaceville Records
Year: 2006
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “The Cult Of Goliath”
2. “Too Old Too Cold”
3. “Atomic Coming”
4. “Graveyard Slut”
5. “Underdogs And Overlords”
6. “Whisky Funeral”
7. “De Underjordiske (Ælia Capitolina)”
8. “Tyster På Gud”
9. “Forebyggende Krig”

“Nothing to prove, just a hellish rock ‘n’ roll freak.
You call your Metal Black, it’s just spastic, lame and weak.”

Se è realmente vero il motto secondo cui Punk non sarebbe solo musica ma anche contenuto, allora “The Cult Is Alive” segna la definitiva svolta stilistica comunque ampiamente anticipata dal suono scricchiolante di Hate Them” e dal riffing particolarmente immediato del rimanente nerissimo “Sardonic Wrath”. Allo stesso modo, il messaggio in precedenza sottinteso viene nel 2006 sbandierato senza più l’uso di mezzi termini o velate provocazioni, chiaro e tondo sin dall’uscita sul mercato del singolo promozionale “Too Old, Too Cold” avvenuta giusto un mesetto prima, sul finire di gennaio: i Darkthrone sono troppo vecchi per correre dietro ai trend di un genere a quel punto in piena crisi di identità, creativamente ed ampiamente superato dai suoi diretti discendenti (siano essi il Folk europeo in pieno boom di popolarità e sviluppo qualitativo quanto le nascenti avanguardie provenienti da oltre l’Atlantico) ed oltretutto integratosi a pieno titolo nelle logiche mediatico-affaristiche delle quali è intriso più che mai tutt’oggi il suo ambito più altolocato.
Del resto, già dai tempi del glorioso “Panzerfaust”, aprendosi quindi alla seconda metà dei ‘90, i due di Kolbotn si erano cuciti addosso un’immagine da bastian contrari mal disposti verso qualsiasi innovazione portasse l’amato metallo nero ad essere altro (quantomeno dal punto di vista attitudinale) rispetto alle sue origini, ma è nel 2006 che il titolo undici anni prima autoconferitosi di band più odiata al mondo diventa l’ideale primo alla base della direzione musicale stessa; dopotutto sono proprio i primi anni duemila ad essere quelli dell’exploit commerciale dei Dimmu Borgir in giro per il globo e, soprattutto, dell’arrivo sulla scena norvegese di personalità decisamente egocentriche ed artisticamente deleterie quali King Ov Hell: tutte figure in antitesi con la mentalità dei Darkthrone e a cui si deve con ogni probabilità almeno parte dell’atteggiamento di aperta ostilità tenuto dal duo e sfociato nel rifiuto di quegli stilemi per come minimo un decennio buono.

Il logo della band

Ma col proverbiale senno di poi, cosa rimane del significato di “The Cult Is Alive” a quindici primavere dalla sua pubblicazione? Oggi quello di Fenriz e Nocturno Culto è forse l’unico nome storico capace di mettere d’accordo qualunque appassionato a prescindere da quel che da loro viene puntualmente inciso in questa o quell’altra occasione, e la luna di miele a ritmi di Hardcore e Crust Punk terminata ufficialmente con “Circle The Wagons” viene per di più considerata da larga fetta di critica e pubblico come uno dei periodi più felici della carriera dei norvegesi. Questo diffuso apprezzamento si sposa bene con gli intenti dietro il rilascio di un’opera dalla simile portata concettuale? A voler rileggere certe dichiarazioni, in special modo dell’iconico drummer e compositore primo del duo, verrebbe da rispondere in maniera negativa se non addirittura ipotizzare che i Darkthrone di allora avessero il palese e forse presuntuoso obbiettivo di farsi odiare dai loro stessi fan, cambiando non soltanto identità sonora ma persino la missione dichiarata del progetto; la ricerca dell’anticommerciale prima con un sound che ha ridefinito i termini di malvagità in musica, mentre nel 2006 con un disilluso gioco di rimandi filologici ed influenze tra le più disparate che ci si potesse aspettare da uno dei gruppi Black Metal più influenti in assoluto da più di dieci anni.
Certamente nulla incarna la filosofia Punk quanto l’irridere i propri sostenitori con trovate spregiudicate in aperto contrasto con le loro aspettative verso il monicker di tradita fiducia (in una linea di interpreti gloriosa, si pensi anche solo ai Sex Pistols, dalla figura di Malcolm McLaren al Filthy Lucre Tour), ma è altrettanto plausibile che una tale enfasi nel sarcasmo verso la seconda ondata norvegese a cavallo del terzo millennio nascondesse in realtà anche una mancanza del coraggio necessario a concepire dischi in grado di essere direttamente confrontati coi capolavori degli anni novanta, come era stato perlomeno fino al probabilmente anche troppo sottovalutato Plaguewielder”. Per intenderci, mentre il rientrante Burzum di “Belus”, qualche anno dopo, non avrebbe affatto temuto il paragone coi vecchi classici, al contrario, ripartendo proprio da essi per aggiungervi ulteriori elementi come il tempo per lui si fosse fermato (cosa, peraltro, artisticamente e forzatamente avvenuta a conti fatti), il duo preferisce al contrario buttarsi a capofitto nel mero feticismo di un’epoca non loro, mascherando sotto toppe ricercate, tape antiquate ed ironia di stampo nonnista da caserma un’ispirazione forse in esaurimento senza nemmeno la necessità di un radicale cambio di rotta compositivo. Si tratta, come ovvio sia, di plateali supposizioni, di congetture senza tangibile fondamento che hanno tuttavia il pieno diritto di esistere quali suggestioni nel momento in cui un prodotto artistico si fonda così pesantemente su di un substrato quasi ideologico mettendo per intenti in secondo piano la -pur totalmente convincente- proposta.

La band

Difatti “The Cult Is Alive” è prima di ogni altra cosa un album musicalmente eccellente, nonché un punto nodale nella carriera dei norvegesi e forse del genere nel nuovo millennio, dai quali solchi trasuda un’evidente sensazione di “liberi tutti” che nulla ha di forzoso ma al contrario suona autentica, passionaria, iconoclasta come da origini ed irriverente almeno quanto il “C’mon you fuckers” sganciato nell’opener “The Cult Of Goliath” da un Nocturno Culto ancora sorprendentemente (a quel punto, un anno prima dell’egocentrico documentario “The Misanthrope”) calato nel ruolo di demoniaco frontman Rock ‘N’ Roll.
Il culto di Golia, concetto ancora in bilico tra il serio ed il faceto e per questo motivo molto meno irritante rispetto a certi evidenziabili episodi futuri, si apre all’ascoltatore degno rivelando una mistura incendiaria dove a fare da fiammifero c’è una produzione a dir poco perfetta, curata per la prima volta dallo stesso vocalist con un occhio di riguardo a quella sentita sui due ottimi full precedenti. Se parecchi tra gli ormai sparuti detrattori rimasti del periodo Punk della band vedono, nonostante tutto, in questo lotto di brani l’ultima parvenza dei Darkthrone originali il merito va proprio al lavoro di ingegneria sonora qui sublime di Skjellum, da sempre sedicente anima nera del duo oltre che ancora saldamente padrone del microfono ed artefice di un sound sferragliante, vicino per i toni svuotati all’asperità della trilogia culminata nel 1994 in “Transilvanian Hunger” piuttosto che all’arrotondamento di quella inaugurata con “F.O.A.D.” giusto l’anno successivo; mai come in questo disco, infatti, la coppia di strumentisti darà davvero l’impressione di un progetto cantinaro messo su tra una birra e l’altra da dei veterani dell’ormai vecchio e freddo Black Metal, presente nel ringhio canoro e nel ronzare delle sei corde qui come ai cosiddetti tempi d’oro.
Il compare Fenriz, se si eccettua qualche fill di gradevolezza ma anche esagerato per quello che è il mood dichiarato dell’opera, lavora benissimo su linee scarne nell’esecuzione ma poliedriche nell’evolversi dei pezzi, con sterzate continue e un ventaglio di ritmiche a dare grande personalità ad ogni capitolo della tracklist: le fondamentali lezioni batteristiche di GBH e Discharge si ritrovano in “Atomic Coming” e “Whiskey Funeral”, quest’ultima una vera rincorsa tra d-beat e rullante in battere, mentre la seconda metà soffre forse un poco la disomogeneità tra l’assalto di “Tyster På Gud” e l’andamento caracollante della comunque ottima chiusura “Forebyggende Krig”. In mezzo ai due estremi brillano poi sprazzi di svergognato Black ‘N’ Roll, con in testa il paio di singoli presentato nell’anteprima sopra citata “Too Old, Too Cold”: sia l’intoccata traccia omonima, che l’ancor più sguaiata “Graveyard Slut” (su cui qui, rispetto a quella differente contenuta nel maxi-singolo del mese prima, Nagell tira fuori una prova vocale grugnita e credibile di totale tributo ad un giovanissimo Fischer e agli amati Hellhammer, ancora priva di quegli acuti sempre in pericoloso bilico tra Epic Metal e trash puro arrivati in seguito) sono potenziali hit da mandare a memoria sin dal primo ascolto, dotate di andatura sostenuta, riff ficcanti e un’attitudine goliardica ben dosata che si respira in realtà, per chi la vuole notare, durante tutti i quaranta minuti scarsi di durata di “The Cult Is Alive”.

È dunque con una mesta risata che Fenriz e Nocturno Culto rispondono allo stallo creativo (solo e soltanto) su scala nazionale rappresentato da act quali Tsjuder e 1349, visti giustamente come parodie dei gruppi fondativi della nera saga di fuoco e sangue norvegese e ai quali sembra essere dedicato il rancoroso testo di “Shut Up”. Ma spesso nella storia di una band capita che questioni extra-musicali (siano esse vicissitudini personali, prese di posizione di natura politica e sociale, lutti o dipendenze di sorta) portino i membri a perdere di vista quello che dovrebbe essere lo scopo del tutto, ossia la creazione di grandi album; e forse questo è successo anche ai Darkthrone nel momento in cui la venerazione del Metal retrò ha raggiunto livelli eccessivi di autoindulgenza estetica, quando insomma il duo pareva più interessato ad infilare i loghi di Deathhammer e Nocturnal in copertina anziché mantenere quel minimo di graffiante retaggio Black nei suoni. Eppure, nel 2006, “The Cult Is Alive” è riuscito a catturare in maniera forse irripetibile lo spaesamento sincero di due adulti in un ambiente del cuore e dell’anima sempre meno familiare, a cui essi risposero tornando ancora una volta alla dimensione adolescenziale in maniera orgogliosamente sprezzante, elitaria ed immatura; e proprio per questo in piena continuità con l’odio primitivo canalizzato nei loro più gloriosi e leggendari trascorsi. Per un attimo soltanto, Kolbotn è stata in contemporanea l’epicentro di tutto il male dell’uomo e la patria della band più odiata di sempre, la quale tra alti e bassi è ancora lì a rovinare la festa a chiunque si tinga la faccia di corpse-paint senza far parte del culto di Golia.

“Are you Satan? I don’t think so.
You copy my style, and you call yourself a man…”

Michele “Ordog” Finelli

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